sabato 4 settembre 2010

Sutra del Loto. Cap. 4. Fede e comprensione. (Predisposizione).



A quel tempo, appena gli uomini di innata saggezza, Subuti, Mahakatayana, Makassyapa e Mogallana ebbero udito la legge mai udita prima, ed ebbero udito predire l’ottenimento dell’illuminazione suprema e definitiva a Shariputra, si commossero ed esultarono dalla gioia.



Dissero allora:
“È trascorso molto tempo da quando l’Onorato dal mondo ha cominciato a predicare la legge. Per tutto quel tempo siamo rimasti seduti sui nostri scranni, col corpo affaticato e inerte, meditando unicamente sui concetti di vuoto e di assenza di forma e di azione. Ma la nostra mente non ha mai provato gioia per i piaceri trascendentali della legge del Bodhisattva o per la purificazione delle terre del Buddha e la salvezza di tutti gli esseri viventi.
Perché il Buddha ci aveva offerto la possibilità di trascendere il triplice mondo e di ottenere l’illuminazione del Nirvana. Pensando che questo fosse il traguardo a cui aspirare ci siamo accontentati e, vecchi e stanchi, presi dalla pigrizia, non abbiamo avuto interesse per la via del Bodhisattva e la salvezza di tutto il genere umano.
Ma ora, udendo queste parole abbiamo ottenuto un gioiello di inestimabile valore.
Eravamo come l’uomo ricco della parabola.”

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La parabola dell’uomo ricco.

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Un uomo in gioventù abbandonò il padre e fuggì per vivere lontano stando via molti anni. Con gli anni divenne sempre più povero e indigente e vagava alla ricerca di cibo e vesti. Un giorno per caso arrivò nella sua terra natia.
Il padre, che era ricchissimo, nel frattempo aveva svolto inutilmente ricerche sul figlio. Egli aveva molti servitori e faceva affari in molte città. Il figlio capitò allora nella città in cui viveva il padre. Questi non aveva smesso di pensare a lui per un solo istante, nonostante il figlio fosse lontano da almeno cinquanta anni e non ne aveva fatto parola con nessuno. Era triste, pensando che le sue ricchezze non sarebbero andate a nessuno.
Un giorno il figlio giunse per caso alla porta del padre e lo vide da lontano, circondato dai suoi servitori mentre faceva affari coi mercanti, assiso sul trono. È circondato da servitori, alcuni contano pezzi d’oro, altri scrivono documenti, altri preparano da mangiare per lui, altri ancora preparano una festa per degli invitati che verranno.
Vedendo questa scena il figlio pensò: “Qui sono in pericolo. Costui deve essere un re o una persona di rango simile a quella di un re; questo non è certo il posto in cui posso sperare di ottenere un lavoro e guadagnarmi da vivere. È meglio che vada in qualche povero villaggio dove sarà più facile lavorare e trovare un impiego. Se rimanessi qui un altro po’ potrei essere preso e costretto a fare il servitore”.
Il vecchio lo vide e lo riconobbe subito e il suo cuore si riempì di gioia, pensando che finalmente aveva ritrovato il figlio e che le sue ricchezze sarebbero andate a lui. Ordinò quindi ad un uomo di andare dietro al figlio affinché glielo riconducesse il più presto possibile.
Il messaggero si precipitò di corsa all’inseguimento del figlio e lo catturò. Il figlio non capiva il motivo e terrorizzato pensò che lo avrebbero messo a morte.
“Non ho fatto niente di male, perché vengo catturato? Possibile che la mia ricerca di cibo e vesti mi abbia condotto a questa fine?” Disse.
Ma il messaggero strinse ancora di più la presa, il figlio svenne e il servo lo portò privo di sensi dinnanzi al padre.
Il padre, osservando la scena pensò:
“Non crederà mai alle mie parole. Non crederà che io sia suo padre”.
Allora disse al messaggero:
“Non ho alcun bisogno di quest’uomo. Non costringerlo a rimanere qui. Spruzzagli piuttosto dell’acqua fresca in viso affinché si riprenda ma non dirgli più nulla”.
Perché fece questo? Perché sapeva che il figlio, di modeste pretese e senza ambizioni, difficilmente avrebbe accettato il suo rango elevato e le sue ricchezze.
Il messaggero, quando il figlio si fu ripreso, si rivolse al figlio dicendo:
“ Ora ti lascio libero. Và dove meglio credi.”
Il figlio si rallegrò e si alzò da terra per andarsene in un povero villaggio alla ricerca di cibo e vesti.
Allora il padre, volendo attirare il figlio di nuovo presso di sé, decise di ricorrere ad un espediente e inviò due persone in incognito, due individui di aspetto scarno e rozzo.
“Andate a cercare quel pover’uomo e avvicinatelo in modo casuale. Ditegli che conoscete un posto in cui potrà guadagnare una paga doppia di quella attuale. Se accetta, portatelo qui e affidategli un lavoro. Se chiede di quale lavoro si tratti, ditegli che dovrà spalare il letame e che voi due lavorerete insieme a lui.”
I due messaggeri fecero come era stato loro ordinato e andarono dal figlio. Costui accettò la proposta e chiese un anticipo della paga, poi andò con gli altri due a spalare il letame.
Nel momento in cui il padre vide il figlio provò una profonda pietà e si chiese cosa potesse fare per lui. Qualche giorno dopo, guardando dalla finestra, lo vide in lontananza, mentre, scarno e macilento, spalava il letame ricoperto di sporcizia. Il padre si tolse immediatamente le collane gli abiti e gli ornamenti e indossò gli abiti cenciosi e sporchi. Si cosparse di sozzura afferrò con la destra un utensile per spalare il letame e con fare brusco apostrofò gli altri lavoranti: “continuate a lavorare pelandroni”. Con questo espediente ebbe modo di avvicinare il figlio.
In seguito si rivolse a lui e dicendogli:
“Ehi tu, giovane! Devi continuare a lavorare qua e non devi più andartene. Ti aumenterò la paga e ti darò qualsiasi strumento ti serva per lavorare. Ti darò il cibo che vuoi, e non dovrai preoccuparti di nulla e ti metterò a disposizione un servitore. Puoi stare tranquillo. Sarò come un padre per te. Perché dico questo? Perché ti ho osservato lavorare. Tu non fai il furbo e lavori con vigore. Non sei come gli altri lavoranti e sarai tale e quale a un figlio.”
Così il ricco scelse un nome che assegnò all’uomo, proprio come se fosse suo figlio.
Il figlio continuò a lavorare per il padre spalando letame, pur avendo la possibilità di andarsene dovunque e godendo della massima libertà.
Un giorno, il ricco si ammalò e capì che stava per morire. Chiamò il figlio e gli disse:
“Prenditi cura di tutti i miei beni; controlla entrate e uscite. D’ora in poi agiremo come se fossimo una sola persona.”
Allora il figlio cominciò a vigilare sulle ricchezze del padre, senza appropriarsi mai di nulla.
Sentendo che la fine si avvicinava il padre convocò tutti i parenti, i nobili e le persone del palazzo e quando furono tutti riuniti fece questa dichiarazione:
“Signori, sappiate che questo è mio figlio, carne della mia carne. Egli mi abbandonò e per cinquanta anni è andato girovagando affrontando difficoltà e sofferenze. In passato sono anche partito alla sua ricerca. Tempo fa però lui è ricomparso. Egli è veramente mio figlio e io sono veramente suo padre. Ora sappiate che tutte le ricchezze, i miei averi e le mie proprietà in futuro apparterranno a lui. Egli è perfettamente al corrente di tutti i miei affari.”
Sentendo queste parole il figlio si riempì di gioia e pensò:
“Non mi è mai passato per la testa di desiderare o di cercare questi beni. Eppure tutte queste ricchezze sono venute a me spontaneamente!”

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Figli del buddha

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Onorato del mondo, il vecchio con le sue immense ricchezze non è altri che il Tathagata e tutti noi siamo i figli del Buddha. Egli ci ripete di continuo che noi siamo figli del Buddha.
Ma noi, Onorato del mondo, siamo immersi nel ciclo di nascita e morte, sopportiamo tremendi tormenti e siamo oppressi dalla sofferenza del dolore, dalla sofferenza di ciò che è condizionato e dalla sofferenza del cambiamento.
Poiché siamo illusi e ignoranti, arriva il Buddha e ci offre il Nirvana e la dottrina della vacuità.
Noi allora con diligenza ci applichiamo alle teorie buddhiste e ci sforziamo su questo percorso fino a che non abbiamo raggiunto il Nirvana, l’equivalente della paga di una giornata. Coltiviamo la teoria della vacuità, ci liberiamo dal dolore del triplice mondo.
Poi insegniamo il Nirvana e la dottrina del Buddha agli altri, come quel figlio che ha ottenuto la fiducia del padrone. Abbiamo distribuito il tesoro dei Buddha considerandoci dei poveri. Abbiamo insegnato la conoscenza del Vittorioso pur non desiderandola. Noi fantastichiamo di una pace per noi stessi, né oltre si estende la nostra conoscenza e pur udendo della magnificenza della via del Buddha non ce ne rallegriamo.
In questo modo, ritenendo si tratti di un grande risultato, non cerchiamo il Grande Veicolo, ma il Piccolo Veicolo. E, una volta che l’abbiamo raggiunto, i nostri cuori si colmano di immensa gioia, perché questa meta ci sembra sufficiente. Quando tempo fa raggiungemmo il Nirvana dentro di noi ci siamo subito detti:
“Dato che siamo stati diligenti e ci siamo sforzati nella legge buddhista, abbiamo ottenuto questa grande e profonda comprensione.”
Tuttavia l’Onorato del mondo, sapendo in precedenza che le nostre menti si aggrappano a desideri inferiori, ci perdona e ci lascia fare. Egli ha utilizzato il potere degli espedienti predicando in una forma adatta a noi e così noi non sapevamo di essere figli del Buddha.
Fin dalle epoche passate siamo sempre stati figli del Buddha, ma non abbiamo fatto altro che apprezzare dottrine inferiori. Non sapevamo che potevamo ottenere la Buddhità, tutti noi, ascoltatori della voce. E il Buddha non ci ha mai detto “voi conseguirete la Buddhità”, perché sapeva quanto siamo attratti dalle cose infime ma si è limitato ad insegnare come liberarci da tutte le illusioni, a praticare il Piccolo Veicolo e divenire ascoltatori della voce.

Come il figlio dell’uomo ricco, che pur avendo i suoi tesori e maneggiandoli ogni giorno non desiderava ottenerli, abbiamo cercato di sradicare ciò che era dentro di noi credendo che fosse sufficiente, abbiamo capito solo questo aspetto e non sapevamo niente degli altri. Sebbene avessimo sentito parlare di purificazione delle terre del Buddha, di istruire e convertire gli esseri viventi, non ne abbiamo mai provato gioia.
Perché questo?
Perché aderendo alla teoria della vacuità, avevamo compreso che tutti i fenomeni sono uniformemente vuoti, tranquilli, senza nascita e senza estinzione, né grandi né piccoli, privi di difetto e di azione. Quando una persona pensa in questo modo non può provare né piacere né gioia per la saggezza del Buddha.
Noi non abbiamo nutrito né avidità né attaccamento e neppure alcun desiderio di possederla.
Riguardo alla legge credevamo di possederne l’essenza.
Ora però siamo diventati veri ascoltatori della voce, perché facciamo nostra la voce della via del Buddha e la faremo udire a tutti. Ora siamo diventati veri arhat. Abbiamo ottenuto una cosa insperata, venuta a noi spontaneamente.

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